Quando si lavora in educativo si cammina a fianco dell’emotività delle persone siano esse frequentatori del nostro studio, della nostra classe o del nostro servizio…
Nel web una parola che ricorre spesso sopratutto nei siti di psicologia, ma anche nei meme (immagini con scritte) di FB è resilienza, un termine preso in prestito dal mondo dei materiali pesanti:
Il termine “resilienza” in origine proveniva dalla metallurgia: indica, nella tecnologia metallurgica, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Etimologicamente “resilienza” viene fatta derivare dal latino “resalio”, iterativo di “salio”. Qualcuno propone un collegamento suggestivo tra il significato originario di “resalio”, che connotava anche il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare, e l’attuale utilizzo in campo psicologico: entrambi i termini indicano l’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le difficoltà.
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Quando si lavora su un progetto educativo (a scuola come in libera professione o in un servizio) in pratica si dovrebbe riuscire ad attivare le risorse della persona (bambino e adulto) affinché le proprie potenzialità mettano in funzione proprio quella caratteristica insita nel mondo dei materiali ma anche dell’essere umano.
Ogni persona ha un’attitudine a reagire agli avvenimenti che possono provocare delle emozioni, ha una propria modalità di reazione ai vari stimoli con intensità differenti. La persona può avere una emotività normale quando la suscettibilità origina un comportamento idoneo alla situazione, oppure può avere un’impressionabilità che la espone a disagi psico-affettivi con alterazioni delle funzioni organiche (dal dizionario di Pedagogia Clinica).
Sulla base di quanto ho scritto lavorare sul ripristinare e/o exducere abilità e sulla disponibilità ad apprenderle sono finalità ed obbiettivi da inserire nei progetti educativi che andiamo a costruire con il team delle insegnanti e con la coppia genitoriale, se fossero presenti anche con le altre figure specialistiche (educatrici, ass.sociali, neuropsichiatri, psicoterapeute, logopediste, psicomotriciste).
Come si fa a lavorare con le emozioni delle persone pur non essendo delle specialiste in possesso di strumenti conoscitivi e di intervento atti alla cura dei disagi psico-affettivi?
Prendendo consapevolezza delle emozioni (primarie e secondarie), e per farlo occorre riconoscerle in in voi (attraverso uno sguardo sincero verso voi stesse che può, e secondo me dovrebbe, essere allenato costantemente attraverso l’uso continuativo di figure di supervisione anche fra pari). A questo punto siete in grado di riconoscere nei bambini con cui lavorate, o i vostri figli, le tipologie di relazioni che costruiscono, le reazioni emotive in base a quali stimoli nascono alterate e così offrire una proposta educativa che li aiuti e sostenga a modificare in ottica di benessere il proprio atteggiamento.
Personalmente diffido molto degli innumerevoli laboratori sulle emozioni per bambini organizzati e gestiti come fossero laboratori di pittura, perché è un mondo delicato quello dell’emotività pertanto credo che necessiti di esperte, meglio se di formazioni diverse che si vadano a completare, sopratutto io sostengo, suggerendolo spesso in studio, che siano gli adulti (genitori e insegnanti) a partecipare ad incontri, percorsi sulla consapevolezza di sé e dei propri modelli educativi e affettivi perché è il loro esempio che poi viene preso come guida dalle piccole personcine che si stanno formando intorno a loro.
Che ne pensate?
Per curiosità un articolo sulla resilienza QUI